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di Rosalba Contentezza

A marzo 2019 saranno trascorsi 28 anni dalla mia laurea in Psicologia Clinica e di Comunità. Sono tanti? Sono pochi?  Dipende dai punti di vista, credo. Sono pochi se penso a quanto ancora posso imparare e a quanto ancora c’è da scoprire. Sono abbastanza se li misuro sulla base delle mie personali esperienze professionali e dei cambiamenti cui sono stata a volte testimone a volte compartecipe attiva. Credo tuttavia di potere azzardare qualche piccola e personalissima considerazione.

La categoria professionale cui appartengo, da un punto di vista squisitamente normativo è fra le più giovani del panorama italiano e a febbraio del 2019 ricorre il trentennale della istituzione del nostro sistema ordinistico, giusto per fare un raffronto, l’Ordine dei Medici, in Italia è stato istituito nel 1910. L’essere una categoria professionale fresca di “riconoscimento” legale e politico potrebbe indurre ad un pensiero riduttivo che vorrebbe attribuire scarse competenze e scientificità ad una disciplina ricca di storia e sempre più coinvolta nei progressi scientifici, e forse anche a ciò potrebbe ricondursi il frequente stigma che spesso accompagna la visione della psicologia. E questo probabilmente non aiuta molto in termini di visibilità sociale della disciplina e dei suoi professionisti, con buona pace dei riconoscimenti e degli accreditamenti scientifici di cui gode nel resto del mondo.

Noi psicologi, già da quando frequentiamo l’università, ci confrontiamo costantemente con questo stigma, con la diffidenza (ancora? Si, ancora!) verso le nostre competenze, con gli attacchi alla validità scientifica di questa meravigliosa disciplina, con la confusione fra le varie figure professionali che vengono sovrapposte e mal interpretate e secondo cui, ad esempio, lo psicologo scolastico è qualcuno che psicoanalizza gli studenti, o gli insegnanti, senza il loro consenso (sic!). Credo che ognuno di noi colleghi, custodisca più o meno gelosamente, i vari commenti o giudizi improbabili sulla professione.

Sentirci parte di una comunità, di una categoria unanimemente riconosciuta non è una esperienza scontata ed acquisita come può esserlo per un ingegnere o un medico. Fino a poco prima dell’istituzione dell’ordine professionale, e forse anche per un decennio seguente, le occasioni di incontro, di scambio e confronto e di partecipazione attiva alla vita professionale era quasi esclusivamente legata ad attività formative o scientifiche.

La difficile aggregazione

Nessuno ci ha preparato o tramandato una tradizione, un sapere, relativo all’aggregazione ed alla partecipazione alla politica professionale. Negli ultimi anni, fortunatamente e fisiologicamente, le cose stanno cambiando: molti dei colleghi, seppure con forme associative o corporative differenti, ha iniziato a diventare parte sempre più attiva di una comunità che in realtà ci appartiene da sempre. A mio avviso la partecipazione alla vita di gruppo, di categoria, è sempre una grande opportunità ed una grossa risorsa che merita attenzione e sviluppo. Come in tutti i processi di democrazia partecipata non mancano le difficoltà, le crisi, gli errori, gli scontri e le sbavature e i margini di miglioramento sono ampi. Tuttavia c’è sempre chi, in un modo o nell’altro si interessa, comunica, progetta, monitora, immagina e sogna.

La dimensione del sogno è ciò che alimenta, e questo noi lo sappiamo bene, la motivazione e la forza dell’impegno comunitario. Tuttavia, a mio avviso, una quota parte dei professionisti, ancora opera una sorta di delega “alla cieca”, troppo impegnato nella propria crescita personale e professionale, perde di vista un dato essenziale: se cresce la categoria, cresciamo tutti, se ciascuno fa la sua piccola parte, in modo informato e consapevole, la forza aumenta e la fatica diminuisce e là dove questo non accade l’individualismo rischia di farla da padrone con inevitabili conseguenze per tutta la categoria e a cascata per tutti i suoi professionisti.

Ancora troppi colleghi, a mio avviso, interpretano l’appartenenza professionale in un’ottica ristretta alla propria specialistica, limitando la propria sete di informazioni ad ambiti di settore e poco o nulla alla politica professionale, ignorando o volendo ignorare che in definitiva anche le proprie sorti lavorative e professionali saranno il riflesso di un andamento deciso in altre sedi istituzionali senza la loro partecipazione o il loro consenso.

Libertà è partecipazione, cantava Gaber. E in fondo è vero..

Deleghiamo troppo?

La delega in rappresentanza è alla base del principio democratico ma ricordiamoci sempre che esiste un sostanziale differenza fra delega partecipata (nella quale abbiamo il diritto ed il dovere dell’informazione corretta) e delega di pensiero (nella quale di fatto ci disinteressiamo del tutto e abdichiamo non solo al voto ma anche al pensiero autonomo) e nessun organo democratico e realmente libero può dirsi tale se esercita le sue funzioni senza la partecipazione attiva della maggioranza dei membri che è chiamato a rappresentare.

Partecipare è un’assunzione di responsabilità piena delle proprie appartenenze professionali, è essere pienamente consapevoli che ciascuno di noi è responsabile di tutto ciò che fa ma anche e forse soprattutto di ciò che non fa per l’intera categoria cui appartiene, il gruppo in seno al quale cresce, nel bene o nel male, ogni professionista. Partecipare non è necessariamente un impegno a tempo pieno e strettamente connesso ad attività di rappresentanza, di organizzazione o coordinamento.

E’ già partecipazione tenersi informati e mantenere il senso critico, consultare i siti istituzionali, porre quesiti, chiedere chiarimenti, proporre progetti, monitorare l’operato dei nostri delegati alle istituzioni mantenendo il contatto con chi abbiamo votato e ci sta rappresentando.

In questa accezione sempre più spesso apprezzo i colleghi che anche timidamente si affacciano a questo mondo, per noi ancora nuovo e alquanto estraneo, a tratti infido, e al tempo stesso sorprendente e carico di potenzialità e possibilità.

E’ altresì comprensibile che alcuni animi siano particolarmente infervorati e appassionati a questi aspetti di cui percepiscono non soltanto le potenzialità ma anche i rischi e vogliano presidiare in modo attento gli orientamenti e le pianificazioni delle attività programmatiche che riguardano l’intera categoria e potrebbero avere ricadute importanti sulla visibilità e sull’apprezzabilità delle competenze specifiche dello psicologo.

Tuttavia molti fervori e tanta passione, seppure giustificati, rischiano allo stesso modo di annientare il pensiero critico, le capacità di analisi e di giudizio e la giusta considerazione delle azioni monitorate strizzando l’occhio al pensiero unico permeato di ideologia e pregiudizio e poco attento alla pluralità e alle necessità dei contesti che si devono affrontare.

In questo caso il serio pericolo è che tali atteggiamenti e prese di posizione ottengano, di fatto, l’effetto contrario a quello desiderato, innescando spaccature interne che di certo non giovano alla causa comune e che in questo periodo di “costruzione identitaria” forte leda in modo irreversibile la possibilità di essere rappresentati come categoria forte, quale meritiamo di essere. E, mi spiace doverlo sottolineare, queste dinamiche noi le dovremmo conoscere bene e saperle gestire al meglio.

Una categoria giovane

In sostanza potremmo dire che siamo una categoria professionale “giovane” seppure privilegiata perché supportata da ampi crediti scientifici e onorati di una storia antica ed  importante fatta di ricerche, scoperte e contributi di peso al progresso; abbiamo bisogno di costruirci in termini identitari e sociali in modo forte e propositivo e per farlo necessitiamo della partecipazione attiva di tutti i professionisti, in tutte le sue possibili sfumature, ma ciò non deve farci sentire legittimati a scagliarci gli uni contro gli altri in un eccesso di fervore da “giusta causa” perché ciò è l’esatta antitesi di ciò che vogliamo proporre ai nostri stessi colleghi e soprattutto alla società cui vogliamo proporre le nostre competenze e alla quale ci rivolgiamo reclamando il legittimo ruolo che ci compete come professionisti. La psicologia, scienza giovane e ricca, si prefigura come punto di incontro fra altre discipline fondamentali dei saperi umani, come la medicina, la filosofia, la sociologia e l’antropologia, creando un dialogo proficuo fra i dottrine e conoscenze che divengono qualcosa di più della competenza specialistica,  riuscendo a dare sensi e significati diversi  e indispensabili per la comprensione dell’uomo e del suo comportamento e derivandone applicazioni e pratiche decisamente fruttuose per implementarne il benessere in tutti i campi. Il dialogo è lo strumento fondamentale, del quale ci fregiamo di avere, legittimamente, le competenze necessarie per alimentarlo ed indirizzarlo ed interpretarlo in modo efficace. Ci proponiamo e ci vogliamo proporre alla comunità come professionisti competenti e portatori di una cultura e di un sapere che agevola la comunicazione, che sa raccogliere i frutti dell’incontro fra le diversità e tuttavia ancora non abbiamo imparato del tutto ad utilizzare questi stessi strumenti per la nostra stessa categoria, generando non soltanto uno spreco energetico enorme al nostro interno ma anche fratture comunicative importanti al nostro interno che ovviamente non giovano alla Causa. Vogliamo affermare con orgoglio le nostre appartenenze e competenze proponendole come utili ed efficaci per il benessere sociale ma facciamo fatica a metterle in atto all’interno della nostra comunità, di fatto, indebolendone l’immagine e la visibilità.

Non possiamo e non dobbiamo volgere altrove la nostra attenzione quando si affrontano temi inerenti le politiche professionali ma non possiamo nemmeno immaginare di poterci rivolgere l’un l’altro con accanimento e pregiudizio. Se c’è un ambito che ci appartiene per eccellenza e di default è proprio quello dell’incontro; sono le nostre competenze di base. Iniziamo ad utilizzarle anche per noi e su di noi. D’altra parte come possiamo proporre all’esterno una professionalità che con dignità e coerenza reclama di possedere competenze uniche e  indispensabili alla società civile, basate sulla conoscenza del funzionamento umano e sulle dinamiche della comunicazione, sull’ascolto attivo e sulla mediazione, se noi per primi non siamo in grado di adoperarle efficacemente per la nostra stessa categoria?

Libertà è partecipazione, si Gaber aveva ed ha ancora ragione.